50 anni sulla luna

Nel 1969 io c’ero, davanti al televisore nella notte del 20 luglio a guardare l’allunaggio mentre in casa tutti gli altri dormivano…

Nel 1998 me ne sono ricordata in un racconto che fu pubblicato sul Corriere della Sera. Nel 2001 lo inserii nell’ebook Racconti dal Web, e poco dopo un sito di letture che oggi non esiste più (Voices.it, creato da Luigi Cristiano) ne fece una versione audio con la voce del musicista Walter Salin.

Ecco la registrazione e il testo del racconto:

 

Ma chi è andato sulla Luna?

racconto di Carmen Covito

 

Sto sbirciando attraverso un buco nella siepe. Mica facile, con questi rametti che tendono a scattare in fuori stile filo spinato mirando agli occhi. Potatura malfatta. Il problema più serio, le ginocchia, comunque si è risolto: non me le sento più da una mezz’ora. Bene. L’insensibilità mi aiuta a concentrarmi sulla casa. Villetta, dovrei dire. È esattamente quel tipo di ciarpame residenziale che i geometri definiscono «villetta»: due piani fuori terra più garage seminterrato e, certamente, tavernetta attigua. Nel giardino, betulle. Ma la colpa non è di Lisa. Lei non è responsabile dei faretti sul prato e dell’antenna satellitare spadellata sul tetto a… Finalmente! Eccola. Si è aperto il portoncino blindato e lei è lì, qui, a tre metri da me che mi emoziono e perdo l’equilibrio e mi spino la faccia e… C’è mancato poco. Scricchiolio di rotule come una fucilata nel silenzio. Ma lei non se n’è accorta. Guarda la Luna, lei. Forza, bella, avvicinati ancora un po’, abbassa qella dolce testolina, sì, così, vieni, altri due passi, ma, insomma! dài, come fai a non notare niente? Proprio lì, tra Dotto e Mammolo, dove dovrebbe starci Pisolo, non la vedi la terra che è scavata di fresco, tutta nera? L’ha vista. Ha già raccolto il volantino. Lo sta orientando verso la luce di un faretto. «Comitato di Liberazione dei Nani da Giardino» è scritto in grosso, quindi dovrei vedere subito una reazione, a meno che questa ragazza sia venuta su talmente male che… Sta ridendo! Sia ringraziato il cielo, sta ridendo. Mi sento meglio. Il nodo di apprensione che cominciava a spremermi un filo fastidioso di acidità su per la gola adesso si è allentato. Peperoni al cumino. Con un angolo della mente, mi ripeto che dovrei farla finita con certi esperimenti pesanti: alla mia età, cosa mi vado a mettere a imparare nuove ricette thailandesi estive, e per cena poi! Ma erano buoni. E mi sono davvero divertito a scivolare sotto il buco della siepe, prima, con la mia zappetta da campeggio recuperata dallo sgabuzzino dei ricordi di gioventù…

«Papà, e dài, vieni fuori, lo so che sei qua attorno.»

Vengo fuori. Cioè, comincio lentamente a raddrizzarmi appoggiandomi al nano di gesso che ho liberato con destrezza dal giardino del nuovo marito della mia ex moglie, un cafone leghista pieno di velleità da prendi tre-paghi-due, e sarebbe pure pieno di soldi, l’industrialotto celta, che a averli io saprei come usarli con stile, tutti, ma è chiaro che il confronto non potrebbe mai porsi, perché sul mio stipendio da professore di scuole medie le tasse non le evado, io… oddio la schiena! su, con cautela, con molta cautela… Suppongo che anche Lisa si possa definire un ricordo di gioventù. O quasi: quando mi sono arreso all’idea di generarla rasentavo i trent’anni… be’, i trentacinque, ok. Adesso lei ne ha sedici. E quella sciagurata di sua madre dice che se me la lasciasse vedere di più finirei per corromperla. Io! Ho perso un pomeriggio intero a scrivere lo stupido volantino didattico che adesso la mia bambina si diverte a sventolarmi in faccia, bisbigliando: «Papà, sei tutto scemo. Se invece di uscire io usciva qualcun altro, che facevi? e che vuol dire qui, “noi del piccolo popolo ci battriamo per un’ecologia estetica”, eh?»

«Era ‘ci battiamo’: un errore di battuta, appunto» le bisbiglio in risposta, «e comunque in giardino a quest’ora ci esci sempre solo tu.»

«Ci mettiamo a spiare, adesso? Sempre, quando?»

«Da tre giorni», confesso rimettendo il nanetto al suo posto. «E non ti sto spiando, è solo che l’altroieri passavo di qua e, be’, avevi una faccina… malinconicamente romantica, ecco. Qualcosa che non va con il tuo filarino?»

«Perché non ti fai mai gli affaracci tuoi?» dice mia figlia, e sembra quasi arrabbiata sul serio, ma poi, visto che litigare bisbigliando è praticamente impossibile e se non bisbigliamo quelli là nella casa ci sentono, finiamo per sederci fianco a fianco sull’erbetta bagnata. Quadro idilliaco di padre e figlia in armonia su praticello all’inglese brianzolo. Perfettamente silenziosi. D’altra parte, se Lisa mi dicesse che, tipo, il suo ragazzo è un drogato sieropositivo con due teste e senza laurea, io potrei solo sorridere e cercare di convincerla che, forse, non sarebbe la scelta più sensata. Meno male che, invece, lei è tutta casa e scuola (istituto tecnico per l’organizzazione aziendale, pazienza), ed è precisa, obbediente, rispettosa delle regole e… Sconvolto dal pensiero che stavo per aggiungere «banale», alzo la testa, vedo il gran tocco di Luna che ci pende sopra e mi metto a parlare a vanvera.

«Lo sai che io c’ero? Il 20 luglio 1969. L’Apollo 11. Quando Buzz Aldrin stava lì nel modulo di sbarco Eagle e il comandante Armstrong ha fatto la sua camminata sulla Luna, con quella bella frase retorica, “un piccolo passo per un uomo, ma un salto da gigante per l’umanità”, avresti dovuto vedere che tempi, anche da noi in provincia, in quello schifo di provincia immobilista, che poi un paio d’anni dopo sono venuto su a insegnare al Nord, sembrava proprio che si sarebbe riusciti a cambiare tutto, assolutamente tutto, e, sai, anche quel primo passo al di fuori del nostro vecchio mondo era, be’, a modo suo, una rivoluzione. Perciò ci commuoveva vedere un uomo, solo, goffo, chiuso nella sua tuta protettiva da milioni di dollari come in un’armatura da cavaliere errante, saltellare lassù… Che sto dicendo? Lisa, erano in due: perché dopo Neil Armstrong scese anche Buzz, e anche se nelle foto le facce non si vedono perché i caschi riflettono la luce, quello vicino alla bandiera americana piantata nella Luna è proprio lui, e, hai presente quell’orma umana stampata nella polvere lunare? Io preferisco la fotografia di Armstrong sulla scaletta, è più documentaria, ma l’orma è diventata l’immagine più forte, più simbolica, perché non ha importanza se è l’impronta del primo o del secondo…»

Nessuno si ricorda mai che sull’Apollo 11 c’era un terzo uomo, ma io sì. Si chiamava Michael Collins, era il pilota della navicella-madre Columbia, è rimasto per tutto il tempo in orbita: alla Luna ha potuto soltanto girarci attorno, lui, come io ho girato attorno alla vita… Ma questo a Lisa non lo posso dire.

«Fantastica, quella lunghissima notte insonne davanti alla televisione aspettando il collegamento con Houston» le dico invece, «che Ruggero Orlando e quell’altro, come si chiamava, Tito Stagno! dallo studio di Roma, non riuscivano a mettersi d’accordo, “ha toccato”, “non ha toccato”, “ti dico che ha toccato!”, e be’, è stato importante per la storia del nostro secolo: a mandare la fantasia al potere non ci siamo riusciti, ma a spedire un paio di americani sulla Luna sì…»

«Ma non ci sono mica andati davvero», dice Lisa.

«Che?»

«Una simulazione, no? Come Auschwitz. Non c’è niente di vero. Hanno fatto lo stesso anche per quel presunto sbarco sulla Luna. Tu e quegli altri babbei davanti alla televisione ve la siete bevuta, la faccenda degli astronauti, e invece quelli stavano in uno studio televisivo da qualche parte in America. Lo dice il marito di mamma, lui lo sa, ha trovato in edicola una videocassetta che spiega tutto.»

Sarò rimasto a bocca aperta troppo a lungo, perché Lisa ha assunto un’espressione preoccupata e poi mi ha bisbigliato gentilmente: «Domani gliela frego e te la presto, sì?»

Non potevo non farlo. Esercitando su me stesso una violenza estrema, andando contro le mie convinzioni più profonde, con la morte nel cuore e con un rombo di motori a razzo nel cervello, le ho mollato uno schiaffo. E ho cominciato a urlare a squarciagola: «La vedremo! Domani vado dall’avvocato! Ricorro al tribunale dei minori! Qui è tutto da rifare! Criminali! Nazisti! L’educazione di mia figlia spetta a me!»

Stavolta, no. Stavolta, non mi arrendo. No pasarán. Ho ceduto su tutto, sempre di più, negli anni ho dato via come se fosse niente il mio ruolo politico di maschio, il mio ruolo sociale di docente progressista di scuola media, le mie vecchie speranze, la dignità. Ma adesso, mentre la villa dell’evasore esplode all’improvviso di luci trasformandosi nell’astronave di Independence Day, grido il mio «basta» e non mi tiro indietro: io, a quelli lì, la Luna non gliela voglio dare.

Un altro olocausto, no.

 

 


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