Per un Diario collettivo lombardo

Le storie siamo noi
Diari dalla terra del coronavirus

Un progetto del Centro Formazione Supereroi
http://centroformazionesupereroi.org

Siamo abituati a immaginare la Storia come qualcosa che si svolge nei campi di battaglia, nelle piazze, all’aperto, là fuori da qualche parte. E invece la Storia sta succedendo ora, nelle case di tutti noi.
Per cui ci siamo detti: perché non raccontarli questi giorni, registrarli, lasciare delle tracce, eternizzarli in un certo senso?
Perché non chiedere ai ragazzi di raccontarceli? Ciascuno a modo suo, in tutta libertà. Senza regole di lunghezza, tono, etc. In modo da creare un pazzesco Diario collettivo lombardo.

Se sei una/un insegnante di una scuola lombarda, e sei interessata/o a coinvolgere i tuoi ragazzi in questo progetto non hai che da:

  • Scrivere alla mail scuole@bookcitymilano.it comunicandoci l’adesione, indicandoci di quale classe e scuola si tratta, e fornendo il numero di studenti coinvolti (o potenzialmente coinvolti).
  • Condividere con gli studenti il progetto, utilizzando i materiali che vi mettiamo a disposizione e troverete NEL SITO CFS  (video, informazioni generali, esempi di diari scritti da noi del CFS etc)
  • Svolgere il ruolo di collettori dei file che man mano i vostri studenti vi faranno avere.
  • Quando saremo fuori dal tunnel, inviarci i file, in una cartella unica.

A questo punto noi raccoglieremo i testi, li impagineremo e creeremo dei libri veri e propri (come facciamo di solito nei nostri laboratori), che questa volta verranno a formare un Diario collettivo di ragazzi alle prese con questa vicenda strana e terribile. Una volta pronti e stampati i libri, faremo degli incontri dove li consegneremo, leggeremo e festeggeremo i nostri autori. “


UN ESEMPIO:

Diario di un giorno di marzo
di Carmen Covito

Devo tenere le finestre chiuse fino alle sedici e trenta, ormai da mesi, perché stanno ristrutturando tutto il palazzo e siamo chiusi in un’impalcatura fatta di tubi, tavole, scalette, camminamenti che si sovrappongono da un piano all’altro fino al tetto. Sembra di stare dentro una grande scatola rivestita di un telo da imballaggio di plastica grigiastra, color nebbia, con qualche buco che permette di intravedere pezzi del palazzo di fronte e una striscia di cielo in alto. Stamattina sentivo martellare sui muri esterni, forte, con un ritmo così insistente che dopo un po’ ho dovuto rinunciare a far finta di niente e, a malincuore, sono scesa dal letto.
Vado in bagno, mi lavo, faccio rapidamente colazione, poi comincio la mia mezz’ora di lento combattimento con le ombre, il taji quan che prima andavo a fare in palestra o, sabato e domenica, al parco qui vicino. Non ho abbastanza spazio, partendo dalla camera da letto i passi mi conducono attraverso il corridoio fino in cucina, e le porte non sono allineate, devo deviare dall’orientamento che sarebbe corretto e, nel passaggio, stringere le braccia come non si dovrebbe. Imbruttire così la bella forma che ho imparato mi scoccia, anche se il maestro non c’è, anche se nessun altro del gruppo ci può essere. Siamo tutti da soli, ognuno in casa propria, ognuno che combatte con un’ombra diversa.
Io sono abituata a restarmene in casa, è il mio lavoro stare da sola davanti al computer o con un libro in mano: anche dover tenere le finestre chiuse non mi dava fastidio, finora, perché prima di questa epidemia che impone di isolarsi potevo sempre uscire, rinfrescarmi la vista e schiarirmi la voce in compagnia di altre persone, quando ne avessi voglia. Ora ho la radio, la televisione, internet e, certo, sì, il telefono che alle undici squilla. Dal Giappone un conoscente che non incontro da anni e che non usa mai né le mail né le chat mi chiede se sto bene: ha letto in un giornale giapponese notizie sull’Italia e si è preoccupato. Gli rispondo che sono preoccupata io per le notizie che arrivano da loro e, mentre lo sto dicendo, mi rendo conto che è la stessa cosa che ieri ho risposto alla mail di Barbara, la pen pal australiana con cui scambiavo lettere in inglese ai tempi del ginnasio, ritrovata da poco in rete. Penso che dovrei scrivere anch’io alle mie cugine in Argentina per chiedere come stanno: ma non adesso, devo lavorare.

Sto correggendo le bozze di un bel saggio di un professore di letteratura, sul tema degli scrittori che si descrivono nella propria stanza. Sono arrivata al punto in cui l’autore fa ben notare quanto la propria stanza sia il prezioso rifugio dove lo scrittore si rinchiude per evitare ogni disturbo esterno e, contemporaneamente, una prigione non del tutto volontaria. Appoggio il gomito sulla scrivania, il mento sulla mano, e mentre l’altra mano resta distrattamente abbandonata sul mouse, alzo gli occhi verso la striscia di cielo milanese nel quadrante superiore della finestra. Mah. Sarà meglio andare a preparare qualcosa da mangiare, sono quasi le tredici.
Dopo una zuppa thailandese riscaldata nel microonde e un’insalata brasiliana che ha richiesto ben cinque minuti per essere lavata e condita, guardo i telegiornali, prendo un caffè con calma, faccio fuori due puntate di una serie televisiva americana su un detective nevrotico che mi diverte sempre, poi mi convinco a non andare avanti con le puntate seguenti e torno alla scrivania. Sul messenger del social si sono accumulate dozzine di notifiche, nel gruppo del taiji il maestro ha postato quattro video di mirabili forme di maestri cinesi che dovremmo imitare, su whatsapp trovo foto e messaggi vocali di amici dalla Svizzera e dalla Tunisia, di mia nipote che si è trasferita in Francia e dell’altro nipote che lavora a Madrid, rispondo a tutti, aggiorno le mie pagine, lavorerò più tardi, ho tutto il tempo… Un’altra suoneria, è una videochiamata: mia sorella da Napoli, dice che finalmente, dovendo stare in casa per forza tutti quanti, ci possiamo vedere per una chiacchierata, e ha ragione, d’accordo, chiacchiereremo a lungo, faccia a faccia, alle nostre scrivanie.
Sono le sedici e trentacinque. I muratori se ne sono andati. Chissà se torneranno domani… Aspetta: ancora qualche minuto e la polvere calerà, depositandosi sui calcinacci, liberando dal suo peso impalpabile l’aria, che tra i ponteggi finalmente respira gonfiando come vele i teli grigi di protezione delle impalcature. Adesso posso aprire le finestre e far uscire il mondo dalla mia stanza.

Carmen Covito
15 Marzo 2020